I cagnudei, ovvero i tamburi del venerdì Santo di Erto

Quando cala il buio la voce dei tamburi rotola lungo le strade, rimbalzando sulle vecchie case di pietra. Dalle ombre emergono i centurioni, i tamburini, gli aguzzini che incalzano il Cristo con la croce sulle spalle.

Gli apostoli e Giuda li conosci tutti, eppure in quel momento non sono più loro. Sono altro, sospesi nel tempo di un’immagine eterna. Poi i briganti, Caifa e tutti i protagonisti della passione di Nostro Signore. Il ticchettio degli orologi si ferma e resta sospeso nel suono dei passi, delle grida, della fatica di chi si porta una croce in spalla e cammina a piedi nudi sulla pietra antica: sono i cagnudei, la processione laica del venerdì santo di Erto. Da centinaia di anni il rito si ripete, con o senza l’approvazione della Chiesa. E che ci sia o meno il pubblico, poco importa. Quella dei cagnudei è una voce roca, scomoda, ruvida, che viene da un passato fatto di libertà e fatica. Una voce che risuona da secoli tra le forre boscose della valle del Vajont, alla quale non importa di essere ascoltata, applaudita, fotografata.

Era ed è, e tanto basta.

Oggi, mentre il vento della malattia e della paura soffia sulla montagna e sul piano, a chi è stato anche solo una volta a Erto per vivere i cagnudei basterà chiudere gli occhi per un attimo e quei tamburi, quei volti, quelle emozioni torneranno a vivere ancora una volta.

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