La leggenda vuole che nella notte di Sant’Antonio Abate l’uomo possa sentire quel che si dicono gli animali nelle stalle e nei cortili. Sant’Antonio Abate, infatti, è il protettore degli animali da cortile e domestici e viene spesso raffigurato accompagnato da un maialino.
Si dice anche che ascoltare quel che si dicono le bestie nelle stalle e nei cortili nella notte di Sant’Antonio porti male all’incauto umano che presti il suo orecchio alle chiacchiere di vacche, porsei, cavare, galine, anare e altri frequentatori della tipica corte contadina veneta. Probabilmente perché gli animali, nella loro saggezza, non hanno molto di buono da dire di noi.
Chissà cosa si saranno detti gli animali nelle vecchie corti del Veneto, nei ponari e nelle stalle, durante quest’anno spazzato dal vento della malattia e della paura. Un’epoca che ha sconquassato la vita di ognuno di noi, ma che non ha influito neppure di una virgola sui ritmi del mondo contadino. Mungere vacche, capre e pecore è un’esigenza a prescindere dalle pandemie, e il lavoro di un malgaro, di un casaro, di uno dei tantissimi protagonisti della filiera agroalimentare del Veneto è rimasto quello di sempre.
È da qui che dobbiamo ripartire.
Ascoltando, per esempio, non quello che gli animali dicono fra loro nella notte di Sant’Antonio Abate, ma quel che la tradizione porta sulle nostre tavole. Formaggi nati nella notte dei tempi sull’inospitale gobba del massiccio del Grappa, meraviglie casearie che portano nelle proprie fibre il verde e la luce dell’Altopiano dei sette Comuni. Cacio che sublima fiumi di piégore e pastori solitari dal Po alle Prealpi. E poi malghe baciate dal sole che spunta dal Civetta, che si specchiano nel lago di Misurina, che respirano l’aria selvaggia della Lessinia. Una storia lunga come il Veneto, che profuma di fieno, che odora di stalla, che sa di fatica e di coraggio.
Da qui, da un territorio unico al mondo e dalla sua storia, dalla sua gente dobbiamo ripartire. Conservando la magia della notte di Sant’Antonio Abate.