Con il pecorino dell’Altopiano è tutta un’altra musica

Alla ricerca del pecorino dell’Altopiano

Oggi l’Altopiano dei Sette Comuni è il comprensorio di malghe più importante dell’arco alpino. Basta una passeggiata fra paesi e contrade per rendersi conto del gran numero di vacche al pascolo, e con un rapido conto a spanne si arriva a capire che il volume di latte prodotto è immenso. Vacche e Altopiano sono due immagini da cartolina che vanno a braccetto, ed è giusto che sia così: l’Asiago dop e gli altri formaggi prodotti in questo fazzoletto di Veneto sono di altissima qualità e tengono alto il nome dei veneti nel panorama caseario nazionale.

Ma non è sempre andata così. Molti anni fa l’allevamento altopianese era basato sugli ovini, e fra prati e monti sciamavano immense greggi di pecore. Tanto che l’Altopiano era noto per il suo formaggio piegorin, dalla cui esperienza è nato poi l’Asiago che oggi possiamo goderci nelle varie stagionature.

Ormai quella tradizione è quasi persa, eccezion fatta per qualche pastore transumante che con cadenza sempre più rara porta i suoi animali ad attraversare l’ombra dei campanili dei paesi sotto gli occhi divertiti dei turisti. Ma qualcuno tenacemente attaccato alla tradizione dei formaggi di pecora in Altopiano c’è ancora: è la famiglia Schivo, proveniente dalla cittadina padovana di Este, che da molti anni porta in alpeggio le proprie greggi a malga Slapeur, nel comprensorio delle Melette.

Il concerto di un gregge di pecore che si muove fra prati, boschi e rocce è molto diverso da quello che siamo abituati a sentire quando ci avviciniamo a una malga che lavora latte vaccino. Tanto è sereno e pacioso quello delle vacche, quanto chiassoso, rumoroso e disordinato quello delle pecore.

Ma è un concerto che vuol dire diversità, che parla di tradizioni e di riti antichi: l’uomo “frequenta” ovini e capre da più di 14 mila anni, e questo vorrà pur dire qualcosa. Il suono dei campanacci, frenetico nel movimento del gregge, e i belati degli animali che rotolano fra gli abeti e i larici parlano di noi, di quel che siamo e di quel che eravamo. Ma anche di quello che saremo domani. Se sentiremo ancora quei belati lassù, dove le cime degli alberi fanno il solletico alle nuvole, allora ci sarà speranza. Altrimenti avremo perso un altro pezzo della nostra storia, della nostra anima.

Come sempre: è un nostro dovere scoprire queste storie, preservarle e tramandarle. Ed è un dovere buonissimo!

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